Corte Suprema di Cassazione Sentenza n. 110 del 10 gennaio 1996 Sez. Lav.

                                                                                LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

 

 SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott. Giovanni F. MICALI Presidente
" Alberto EULA Consigliere
" Marino D. SANTOJANNI "
" Vincenzo MILEO Rel. "
" Bruno D'ANGELO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto
da
BIANCHINO DOMENICO con domicilio eletto in Roma, c.so Trieste n. 150,
presso l'avv. Renata Marzano, rappresentato e difeso dall'avv. Buti
Piero, per delega in calce al ricorso;
Ricorrente
contro
COND. VIA GUAZZARONI 7 TERNI in persona dell'Amm.re p.t.
elettivamente domiciliato in Roma via Po 21 presso la sede CISL,
rappresentato e difeso dall'avv. Berardinetti Innocenzo per delega a
margine del controricorso;
Controricorrente
avverso la sentenza del Tribunale di Terni 12.10.92 dep. il
21.12.1992 numero 121-1992 R.G.N. 1346-92;
udito il Consigliere Relatore Dott. Mileo Vincenzo nella pubblica
udienza del 10.5.1995;
sentito il P.M. in persona del Sost. Proc. Gen. Dr. De Gregorio Carlo
che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

Con ricorso dell'11.2.1992 Bianchino Domenico, premesso di avere espletato in modo continuativo lavoro di pulizia in favore del condominio edilizio di Via Guazzaroni n. 7 di Terni, in base a contratto del 27.6.1987 e fino al 31.12.1991, chiedeva al Pretore del luogo il riconoscimento del rapporto di subordinazione in relazione alle prestazioni effettuate e, per l'effetto, la condanna del condominio al pagamento in suo favore delle differenze retributive tra il percepito ed il dovuto, in applicazione del C.C.N.L. di categoria, oltre alle indennità accessorie per ferie non godute, festività non retribuite e T.F.R., come prescritto per legge.
Resistente il convenuto, il quale contestava la qualifica del rapporto secondo l'istanza attorea ed evidenziava la infondatezza delle pretese, il giudice adito con sentenza del 28.5.1992 respingeva la domanda e la decisione veniva confermata dal Tribunale di Terni con pronuncia del 21.12.1992, a seguito di appello del soccombente.
Rilevavano i giudici del merito che le risultanze processuali nel loro complesso, ed in particolare le prove documentali fornite dallo stesso Bianchino, in carenza di contrari elementi di supporto alla tesi della subordinazione, evidenziavano inequivocabilmente la natura autonoma del rapporto in discussione, secondo i principi di legge e delineati dal costante orientamento giurisprudenziale in materia, sicché non restava nella specie alcun margine di dubbio che potesse orientare verso la pretesa subordinazione.
Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione il Bianchino, il quale, previa richiesta di ammissione al gratuito patrocinio, affida il gravame a tre motivi.
Il condominio è controricorrente.

Diritto

Con i tre mezzi di impugnazione, che, attesa la loro evidente connessione ed interdipendenza, è opportuno esaminare congiuntamente, il ricorrente deduce violazione dell'art. 2728, comma I, c.c.; dell'art. 2697 c.c.; dell'art. 360, n. 5, c.p.c. (ex art. 360 n. 3 c.p.c.).
Censura la sentenza: 1) per avere i giudici di merito deciso la controversia in base alle prove ed alle affermazioni rese da esso Bianchino in giudizio, laddove la legge ed il contratto collettivo di categoria qualificano come rapporto di lavoro subordinato quello dell'addetto alle pulizie di locali, ponendo quindi al riguardo una presunzione legale semplice in ordine alla quale ex adverso non è stata fornita alcuna prova contraria; 2) per avere il giudicante invertito l'onere della prova, in quanto, ritenuta detta presunzione legale circa la natura subordinata del rapporto, che dispensa il ricorrente da ogni onere probatorio sul punto, la controversia non poteva essere decisa in base a quanto dedotto dall'istante, occorrendo rigorosa prova da fornirsi da controparte; 3) per omessa motivazione circa un profilo decisivo della controversia, costituito dalla legittimità della domanda, in carenza di prova avversaria sulla asserita natura autonoma del rapporto di lavoro.
I motivi sono infondati.
In subiecta materia questa Suprema Corte ha reiteratamente ribadito i criteri discretivi da utilizzare al fine di inquadrare esattamente un rapporto di lavoro, la cui qualifica sia contestata dalle parti, nella categoria caratterizzata dalla autonomia, ovvero in quella con spiccata disciplina di subordinazione, fissandone la demarcazione in base alla ricorrenza o meno, in relazione al concreto atteggiarsi dello stesso in fase esplicativa e di esecuzione, di taluni elementi, specifici dell'una o dell'altra, quali soprattutto il vincolo di natura personale che assoggetta il prestatore d'opera al potere direttivo del datore di lavoro, con conseguente limitazione dell'autonomia del lavoratore, ed il potere disciplinare e di controllo esercitato nei confronti di costui durante la esecuzione, nel rapporto subordinato; e, per converso, la configurabilità di una prestazione d'opera autonoma in ipotesi di insussistenza di tali precipui elementi caratterizzanti, ove per l'appunto l'attività sia espletata in assenza di alcun vincolo nel senso che precede, in regime di piena autonomia di organizzazione, di esecuzione e di mezzi, con obbligo del solo risultato commesso al lavoratore e demandato qualitativamente alle sue capacità tecniche o artigianali.
Laddove altri elementi, quali il nomen iuris convenzionale dato dalle parti al rapporto, la collaborazione, l'assenza di rischio, la natura e la continuità della prestazione lavorativa, la forma della retribuzione e l'osservanza di un orario predeterminato, ovvero il controllo generico del risultato, in relazione alle direttive esplicitate al riguardo, possono avere soltanto una portata sussidiaria e non decisiva, soprattutto qualora il concreto atteggiarsi delle prestazioni, attesa la loro natura polivalente nel senso della demarcazione come sopra qualificata, non assuma le caratteristiche della univocità.
Ed è, altresì, ius receptum che, ai fini della distinzione fra lavoro autonomo e subordinato, è censurabile in sede di legittimità soltanto la determinazione dei criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto, mentre costituisce accertamento di fatto, come tale incensurabile in detta sede, se sorretto da motivazione adeguata ed immune da vizi logici e giuridici, la valutazione delle risultanze processuali che hanno indotto il giudice di merito ad includere il rapporto controverso nell'uno o nell'altro schema contrattuale.
Nella specie ritiene il Collegio che il Tribunale abbia fatto corretto uso di tali principi, applicandoli in concreto previa approfondita, completa e rigorosa valutazione di tutte le risultanze processuali acquisite, sicché conseguenzialmente esatte sono le conclusioni finali cui è pervenuto, con motivazione adeguata ed esente da errori, contrariamente a quanto è stato prospettato nelle censure, nelle quali, attraverso una deformata interpretazione delle norme di contrattazione collettiva e della legge, sostanzialmente il ricorrente tende a sostituire la propria distorta visione a quella evidenziata dai giudici di merito in perfetta aderenza ai fatti di causa.
Nel caso in esame, anzitutto, non è dato ravvisare alcuna presunzione legale di lavoro subordinato in presenza di attività di pulizia di locali svolta a favore di terzi, in quanto la legge n. 23 del 4.2.1948 (NDR: così nel testo), cui sembra far riferimento il Bianchino per inferirne tale presunzione - con conseguente inversione dell'onere della prova in capo al convenuto -, non concerne la qualifica obbligatoria dell'attività di pulizia locali come subordinata, ma attiene alla perequazione salariale degli addetti a tali specifiche mansioni negli stabili urbani, ove realmente espletate in regime di subordinazione; il che lascia evidentemente impregiudicata la effettiva qualifica del rapporto, le cui caratteristiche a fini di inquadramento nell'una o nell'altra categoria di lavoro postulano sempre l'accertamento di fatto della ricorrenza o meno degli elementi discretivi delineati.
Ciò posto, e ferma restando quindi la applicazione diretta dei principi probatori fissati dall'art. 2697 c.c., senza alcuna inversione degli stessi come erroneamente preteso dal ricorrente, il Tribunale, facendo corretto uso dei poteri di indagine di competenza, non solo ha evidenziato che il lavoratore, venendo meno all'onus probandi a suo carico, non ha addotto alcun elemento idoneo a suffragare, sulla base e secondo i principi discretivi cennati, la sua tesi della ricorrenza in concreto di un rapporto di lavoro subordinato, limitandosi a richiamare erroneamente la ritenuta presunzione legale a suo favore e pretendendo ex adverso la prova contraria; ma ha, altresì, enucleato una congerie di univoci elementi a sostegno del profilo di autonomia del rapporto in esame, offerti dallo stesso ricorrente sia con affermazioni in contrasto con la propria tesi, sia documentalmente, pretendendo, poi, in modo pervicace e sintomaticamente temerario, di invalidarne lo spessore probatorio sul falso presupposto di una loro valenza inficiata dall'error in procedendo del giudice e dalla violazione di norme di legge (art. 2697 c.c.) in tema di inversione dell'onere della prova.
Elementi consistenti: 1) nella volontà negoziale delle parti consacrata nel contratto stipulato il 27.6.1987, dal quale si evince la loro comune intenzione di dar vita ad un rapporto di lavoro autonomo, qualificato espressamente "contratto d'opera"; 2) nella circostanza che con tale stipula la impresa di pulizie civili ed industriali del Bianchino si obbligava con i propri mezzi, senza obbligo di orario e senza ricevere direttive ed essere controllata, ad effettuare determinati lavori di ripulitura delle parti comuni dell'edificio di via Guazzaroni n. 7, in Terni; 3) nel fatto che, in prosieguo e fino al termine, non risulta essere stata apportata alcuna modifica a siffatto iniziale rapporto negoziale, nè formale, nè soprattutto sostanziale, sicché esso ebbe a svolgersi in concreto sempre secondo i canoni di un rapporto di lavoro autonomo, mantenendone le peculiari caratteristiche e gli specifici requisiti; 4) nel rilascio, di volta in volta, di ricevute fiscali di pagamento da parte del Bianchino, quale Ditta regolarmente iscritta alla Camera di Commercio come impresa esercente attività di pulizie civili ed industriali, e come fornita di partita I.V.A.; 5) nella conseguenziale rivalsa di tale imposta effettuata dalla Ditta Bianchino in proprio; 6) nell'intimo convincimento dello stesso ricorrente del carattere di autonomia del rapporto, come formalizzato ed in concreto svoltosi, tanto da indurlo a prospettare reiteratamente all'Amministrazione del condominio la opportunità di una trasformazione in subordinato, non riuscendovi per il sintomatico rifiuto opposto ex adverso, in quanto la parte intendeva protrarlo nell'attuale caratteristica, ne sì profilavano valide ragioni per mutarlo.
Correttamente, dunque, i giudici di merito hanno ravvisato nel caso di specie la ricorrenza di elementi di fatto, che inducono a configurare un rapporto di lavoro autonomo, talmente numerosi e molteplici, e dal significato così univoco, da non consentire diverse conclusioni neanche in forma dubitativa.
Le censure apportate alla sentenza in senso contrario si appalesano, pertanto, del tutto inconsistenti, capziose e meramente defatigatorie sicché s'impone il rigetto del ricorso.
Dev'essere esaminata, infine, l'istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato presentata dal ricorrente, e dev'esserne ritenuta l'ammissibilità, secondo il combinato disposto degli artt. 11 e 13, 4 comma, della legge 11.8.73 n. 533 sulla disciplina delle controversie individuali di lavoro, poiché sussiste il requisito reddituale accertato nelle debite forme nonché la competenza di questa Corte a provvedere in merito, quale giudice dell'impugnazione, ex art. 323 cpc., tenuto conto che l'istante è rimasto soccombente nella precedente fase del giudizio.
Dev'essere rilevato nello stesso tempo che su tal questione non si rinvengono precedenti giurisprudenziali, onde dev'essere compiuta un'esegesi puntuale e sistematica delle disposizioni invocate.
Le norme in esame, allorquando vennero introdotte dal legislatore in sede di compilazione della legge n. 533-73, si discostavano sia dai criteri che dai requisiti previsti nel contemporaneo progetto di legge presentato dal Governo in data 16.10.72, concernente la riforma generale dell'assistenza e del patrocinio in giudizio dei non abbienti (Senato - 6 legislatura - disegni di legge e relazioni - documento n. 453).
Con tale novella, infatti, s'intendevano ammodernare ed ampliare le norme già introdotte dal r.d. 30.12.23 n. 3282, concernente la disciplina del gratuito patrocinio, tanto più che la legge 2.4.58 n. 319 aveva già innovato circa la gratuità dei giudizi concernenti le controversie di lavoro, quale segno nuovo e significativo del mutamento della legislazione ius-..... in senso sociale e democratico.
Fu, per l'appunto, la deroga all'indirizzo dettato da quei criteri generali, nonché la ripetitività di alcune norme, che suscitò delle perplessità in seno alle Commissioni riunite Giustizia e Lavoro del Senato nella seduta dell'11.4.73, in cui erano chiamate ad approvare in sede redigente l'art. 16 (oggi 11-13) della legge n. 533-73.
I rilievi mossi furono i seguenti: 1) "inserimento nel disegno di legge di disposizioni riproduttive di quelle contenute nel disegno di legge generale"; 2) "le conseguenze cui l'approvazione di uno solo dei due provvedimenti potrebbe condurre"; 3) "l'opportunità di adeguare i requisiti richiesti per lo stato di non abbienza ai nuovi criteri della riforma tributaria"; 4) "la diversità delle soluzioni accolte tra i due provvedimenti circa l'organo competente a deliberare l'ammissione al gratuito patrocinio a carico dello Stato".
Le osservazioni suddette, prescindendo dall'opportunità specifica della loro proposizione in vista della necessità di licenziare in tempi brevi il testo di legge, avevano tutte un fondamento ragionevole, ad eccezione dell'ultima, che censurava la neo-introdotta competenza del giudice del lavoro circa l'ammissione del lavoratore al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, quale tratto ritenuto a torto preferenziale rispetto alla mantenuta vigenza della Commissione del gratuito patrocinio nel progetto di legge governativo.
Il disegno di legge sul nuovo rito del lavoro, infatti, che era stato presentato inizialmente alla Camera dei Deputati (6 legislatura disegni di legge e relazioni - documento n. 379) prevedeva già, sul punto, la competenza del pretore, il cui provvedimento favorevole di ammissione al patrocinio a spese dello Stato sarebbe valso per tutti i gradi del giudizio (art. 16, 2 comma).
Esso, però, stabiliva all'art. 20 che "per quanto non disposto dagli articoli della presente legge si applicano, in quanto compatibili, le vigenti disposizioni sul patrocinio statale", onde lasciava rivivere, almeno de residuo, la Competenza funzionale della Commissione sul gratuito patrocinio di cui all'art. 5 del r.d. 30.12.23 n. 3282, nonché dell'istituenda nuova Commissione prevista dal disegno di legge già citato.
Il testo suddetto (approvato senza modificazioni sostanziali in data 26.10.72 e trasmesso al Senato in data 2.11.72 ove fu iscritto col n. 542) venne modificato dal Comitato ristretto nominato in seno alle Commissioni riunite di quel ramo del Parlamento nel senso: 1) di estendere la gratuità del giudizio alla fase di conciliazione, sia pubblica che privata (art. 10, 1 comma); 2) di graduare la validità del beneficio in expensis a seconda della ritenuta fondatezza della domanda nei diversi gradi di giurisdizione (art. 13, 4 comma); 3) di eliminare ogni sopravvivenza della vecchia disciplina sul gratuito patrocinio, sia ordinamentale, che con riguardo a qualsiasi competenza superstite della vecchia Commissione (scopo conseguito attraverso la soppressione dell'art. 20 del testo trasmesso dalla Camera dei Deputati).
Di tali modificazioni, quella più significativa, per quanto ne concerne, è l'ultima.
Essa conferma, da un lato, l'innovazione introdotta dalla Camera dei Deputati circa l'istituzione della competenza funzionale del giudice del lavoro, e, dall'altro, l'eliminazione contemporanea di qualsiasi reviviscenza, ancorché parziale o frammentaria, del regime assistenziale precedente.
Si comprende facilmente, pertanto, che la ratio legis dei vigenti artt. 11-13 della legge n. 533-73 è quella di sottrarre il chiesto privilegio in expensis all'esclusiva burocraticità dell'esame della documentazione esibita.
Se si fosse mantenuto in vigore il sistema della competenza esclusiva di una Commissione estranea alla giurisdizione del lavoro si sarebbe insistito nell'errore: 1) di lasciare in ombra il volto umano di sofferenza e di trattamento ingiusto denunziato in un campo in cui tanto incide l'opera dell'uomo; 2) di consentire che tale errore continuasse ad annidarsi nella pretermissione dell'esame tecnico - giuridico della pretesa vantata da parte dello stesso giudice che su di essa è chiamato a pronunziarsi; 3) di seguitare a disconoscere che il giudice naturale di tali controversie e l'unico organo in grado di valutare contemporaneamente la veridicità del dedotto stato d'indigenza, con le ragioni prospettate, secondo il sostrato economico che il thema decidendum comporta; 3) di continuare ad impedire la valutazione della domanda alla luce di tutti gli elementi di prova comunicati col ricorso introduttivo del giudizio o con quello d'impugnazione; 4) di non consentire che si tenesse conto, in sede di gravame, delle prove già raggiunte e delle sentenze già pronunziate, sia con riguardo alla fondatezza della domanda che allo stato d'indigenza prospettato.
L'attribuzione, per contro, alla magistratura del lavoro della competenza esclusiva in esame consente che il giudizio sul beneficio chiesto sia eseguito col metro più esatto possibile in virtù dell'approfondito esame che esso consente della domanda di giustizia proposta, della prevista graduazione del privilegio attribuito secondo la conclusione delle fasi del giudizio, e della più oculata valutazione della spesa che l'erario è chiamato a sopportare.
Le disposizioni, tuttavia, di cui agli artt. 11-13 della legge in esame vennero approvate egualmente dal Senato, nonostante le obbiezioni sollevate, in considerazione dell'urgenza della promulgazione del nuovo di rito del lavoro e sul rilievo della validità di esse fino all'approvazione del disegno governativo n. 453 già citato. Le considerazioni, infatti, svolte in quella sede dal Ministro di Grazia e Giustizia in occasione dell'approvazione in seconda lettura, come già detto, del testo della legge n. 533-73 nella seduta del 15.5.73 furono le seguenti: 1) "tra le norme che pongono in più evidente risalto l'aspetto sociale del disegno di legge è senza dubbio la gratuità del giudizio"; 2) "secondo l'articolo unico della legge vigente 2.4.58 n. 319, gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi alle cause per controversie individuali di lavoro e di rapporti d'impiego pubblico sono esenti dalle imposte di bollo e di registro e da ogni spesa, tassa, o diritto di qualsiasi specie e natura, limitatamente ai giudizi il cui valore non superi il milione di lire"; 3) "ora tale limite, già di per sè estremamente restrittivo e reso ancor più inadeguato dalla svalutazione monetaria, viene eliminato completamente dall'art. 10 del disegno di legge in esame, che prevede la gratuità del giudizio senza alcuna limitazione di valore o di competenza, ed estende altresì il principio alla fase stragiudiziale, e cioè agli atti relativi ai provvedimenti di conciliazione dinanzi agli uffici del lavoro e della massima occupazione o previsti da contratti od accordi collettivi, nonché alle cause per controversie di previdenza e di assistenza obbligatorie"; 4) "con ciò viene ad essere rimossa ogni remora, anche di carattere estrinseco, all'esperibilità dell'azione in modo che tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro condizione economica, possano accedere, in condizioni di eguaglianza, alla tutela giudiziaria dei propri diritti"; 5) "coerentemente a tale indirizzo ed al fine di garantire effettivamente il rispetto del principio fondamentale dell'uguaglianza dei cittadini nel diritto di difesa, il disegno di legge detta norme sul patrocinio statale per i non abbienti, che sono state coordinate con le disposizioni relative alla riforma generale (di cui al disegno di legge n. 453 del Senato, presentato dal Governo il 16.10.72 ed approvato in sede referente dalla Commissione Giustizia del Senato) e che rimarranno in vigore fino all'approvazione definitiva della cennata riforma generale"; 6) "il Governo è stato particolarmente sensibile a questi aspetti del provvedimento, che, per la prima volta nella storia del nostro paese, liberano in concreto il lavoratore da quella posizione d'inferiorità che ne faceva sin qui, in partenza, la parte più debole del processo, ed ha conseguentemente, sulla base di calcoli effettuati dagli uffici competenti del Ministero della Giustizia, proposto, con l'accettazione da parte delle Commissioni riunite, di quadruplicare, portandolo da 250 milioni ad un miliardo, l'onere finanziario annuo per la gratuità del giudizio e per il patrocinio a spese dello Stato (art. 16").
Da tale excursus appare evidente che il legislatore, dopo un travaglio di non lieve impegno, ha voluto sottrarre implicitamente, ex art. 15 delle preleggi, ma con chiarezza ellittica non equivocabile, le controversie di lavoro nonché quelle di previdenza e di assistenza obbligatorie all'impero delle norme di cui al r.d. n. 3282-23 sul gratuito patrocinio, allo scopo di accordare ai lavoratori una tutela giurisdizionale più ampia ed incisiva onde porli giurisdizionalmente in condizione di parità effettiva coi loro datori di lavoro.
Il Senato, quindi, confermando l'innovazione legislativa introdotta alla Camera dei Deputati dopo il dibattito ampio cui si è già accennato, convalidò l'evoluzione de iure condendo introdotta dal disegno di legge generale proposto dal Governo circa la tutela dei non abbienti, che sostituiva il criterio assistenziale con quello più solidaristico del sostegno economico in funzione di una riconosciuta parità in tema di diritti fondamentali di per sè non condizionabili da accidenti patrimoniali.
Deve considerarsi ora che il disegno di legge n. 453 cui avevano fatto riferimento le Commissioni senatoriali riunite, nonché il Ministro di Grazia e giustizia, al fine di giustificare l'introduzione transitoria delle norme concernenti la gratuità del giudizio in esame, (art. 15 della legge n. 533-73) non è stato mai approvato.
Il Parlamento, infatti, per motivi non del tutto chiari, vi ha rinunziato (almeno per il momento, ex art. 1, 7 comma, della legge n. 217-90), avendo rinviato la sistemazione definitiva della materia alla promulgazione della disciplina generale sul patrocinio dei non abbienti avanti ad ogni giurisdizione.
Esso ha preferito approvare, quindi, le norme di cui alla legge suddetta, concernente l'istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti, che, contrariamente alla sua titolazione, riguarda soltanto la gratuità dei processi penali, così come recato inequivocabilmente dal combinato disposto di cui all'art. 1, 1 e 2 comma, ove si fa riferimento esclusivo alla sopportazione delle spese attinenti alla tutela penale nonché a quella civile concernente il risarcimento del danno sofferto dal reato e le restituzioni relative.
L'art. 16 di tale corpus, inoltre, a conferma della limitazione della provvidenza introdotta, abroga tacitamente, con riferimento implicito ai processi penali, le norme di cui al già citato r.d. n. 3282-23 sul gratuito patrocinio, disponendo che le ammissioni già deliberate rimangono valide mentre gli effetti di esse vengono regolati dal più vantaggioso ius superveniens introdotto.
Non v'è dubbio, quindi, che il carattere transeunte che il Parlamento ha ritenuto di dare agli artt. 11-13 della n. 533-73 in attesa dell'emanazione della legge generale di riordinamento della gratuità dei giudizi non è ancora venuto meno, onde dev'essere riaffermata la vigenza di tali disposizioni, sostitutive, come già detto, della disciplina sul gratuito patrocinio di cui al r.d. n. 3282-23. Consegue, pertanto, che la proposizione della domanda in esame da parte del ricorrente dev'essere ritenuta ammissibile, ma che essa dev'esser rigettata per le già esposte ragioni di manifesta infondatezza delle violazioni di legge denunziate, secondo quanto disposto dall'art. 11, 1 comma, della legge n. 533-73.

P.Q.M

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare in favore del resistente le spese del presente giudizio, che si liquidano in L. 24.600, oltre L. 2.000.000 per onorario di avvocato.
Roma 10 maggio 1995.